venerdì 23 novembre 2018

Venitré-undici-unonoveottozero



Siamo i figli della terra che trema,
siamo il futuro strappato da un improvviso movimento tettonico.
Siamo il tramonto macchiato di sangue in una giornata troppo poco autunnale:
Diciannove-e-trentacinque.
Siamo nelle mani di chi apparecchia, di chi cucina,
di chi studia,
di chi festeggia,
di chi passeggia,
di chi si ama nell’abitacolo di una ‘500,
di chi sfreccia sulla Vespa,
di chi fuma solitario sulla soglia,
di chi aspetta alla stazione,
di chi torna a casa,
di chi ruba le nocciole e mangia le castagne,
di chi imbottiglia il mosto di vino,
di chi si riscalda accucciato al focolare.
Siamo le voci sommesse di chi è sopravvissuto,
portiamo nel cuore i sussurri di chi non è più.
Siamo i germogli tra le crepe del cemento
delle fondamenta di cattedrali mostruose, che speculano su cadaveri e macerie.
Siamo la cicatrice sul volto olivastro e scavato di un Meridione distrutto, solo.
Siamo l'eredità di una terra matrigna
che ci ama e ci respinge lontano dal suo grembo assassino.
Fate presto! ‘Ché questa terra sta morendo,
Fate presto! ‘Ché siamo stanchi di gridare tra la polvere,
Fate presto! ‘Ché sono quarant'anni aspettiamo soccorsi per questi nostri cuori soffocati dai calcinacci.
E di anni se ne succederanno ancora, ma certo è
che la mia gente non trattiene le lacrime,
pensando a quella domenica, giorno consacrato e maledetto,
in cui i muri vennero giù come fossero di cartone
e le esistenze vennero meno come fossero insignificanti granelli di polvere.
Certo è
che quei numeri per convenzione fusi in data, come marchio a fuoco eterno,
non smettono di bruciare.

Ventitré-undici-unonoveottozero.


Cristina Colace





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